Il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 del codice civile è la forma di lavoro prevalente nel nostro ordinamento.
Esiste, tuttavia, una tipologia di lavoro autonomo cosiddetto “parasubordinato”, costituito dalle collaborazioni coordinate e continuative, che presenta elementi comuni sia alla tipologia del lavoro subordinato che a quella del lavoro autonomo, che è stata negli anni oggetto di interventi legislativi volti, soprattutto, a evitare usi impropri della fattispecie contrattuale in alcuni casi utilizzata con l’obiettivo di mascherare rapporti di lavoro di natura subordinata.
Alla luce, quindi, della disciplina oggi vigente appare conveniente capire quando e come la collaborazione coordinata e continuativa possa genuinamente rappresentare un’alternativa al lavoro dipendente.
Superata la formula del “lavoro a progetto” di cui alla Legge Biagi del 2003 (decreto legislativo 276/2003), il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409, del Codice di procedura civile si configura come una “prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. L’art. citato specifica inoltre che “La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”.
L’elemento critico della collaborazione sta nella cosiddetta “etero organizzazione”: qualora il potere organizzativo del committente (datore di lavoro) non leda l’organizzazione autonoma dell’attività lavorativa del collaboratore si rientra nella collaborazione coordinate e continuativa genuina, al contrario si ricade nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai sensi dell’articolo 2, del decreto legislativo 81/2015 (la riconduzione al rapporto di lavoro subordinato riguarda anche le ipotesi di organizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione attraverso piattaforme digitali).
Secondo l’ispettorato nazionale del lavoro (circolare n. 7/2020) per l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato devono contestualmente ricorrere i tre seguenti requisiti: a) prevalenza personale della prestazione; b) continuità; c) modalità lavorative organizzate dal committente.
La sottile e mai facilmente rilevabile distinzione, al fine di considerare genuina la collaborazione coordinata e continuativa, è tra la collaborazione pienamente integrata nell’attività produttiva e commerciale del committente (datore di lavoro), al punto da rendere questo elemento indispensabile ai fini della fornitura della prestazione lavorativa del collaboratore, e il coordinamento tra le parti del rapporto di lavoro che, in assenza di un ingerenza del committente (datore di lavoro) tale da incidere sulla modalità esecutiva della prestazione, ne salvaguardi tuttavia l’idoneità a conseguire l’interesse dell’organizzazione produttiva o commerciale per cui la collaborazione viene resa.
Dal punto di vista sanzionatorio la declaratoria di non genuinità della collaborazione conduce, secondo la prassi amministrativa e la giurisprudenza più autorevole, all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato da intendersi come rinvio alla relativa disciplina legale e contrattuale concretamente applicabile (certamente gli aspetti economico-contributivi riconducibili al CCNL applicabile sarà l’inevitabile conseguenza sanzionatoria).
Al fine di evitare il disconoscimento di un contratto di collaborazione il committente dovrà pertanto essere particolarmente attento sia nella stesura che nell’applicazione del contratto sottoscritto con il collaboratore, prediligendo una serie di elementi piuttosto che altri: a) incarico che presuppone una qualificazione sufficientemente elevata del collaboratore; b) il “coordinamento” tra le parti deve essere sicuramente tale da non manifestare un potere organizzativo-direttivo del committente (elemento tipico del rapporto di lavoro subordinato); c) i tempi e le modalità di lavoro del collaboratore devono rimanere a discrezione dello stesso a patto che l’obiettivo/risultato del contratto sia raggiunto (in caso di uso di locali aziendali possono essere indicate della fasce orarie all’interno delle quali il collaboratore rimarrà libero di operare); quanto al luogo di lavoro al collaboratore può essere fornita la facoltà di svolgere la prestazione lavorativa all’interno dei locali aziendali ma un obbligo, viceversa, apparirebbe espressione del potere direttivo datoriale (tipico del rapporto di lavoro subordinato).
L’attuale aliquota contributiva prevista per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, indirizzata alla gestione separata Inps, ammonta al 33% (la stessa, a grandi linee, prevista per il lavoro dipendente).
Inoltre, al collaboratore, a decorre dal 1° luglio 2017, è garantita la tutela per la malattia a condizione che lo stesso possa far valere almeno un mese di contributi nei 12 mesi che precedono l’evento morboso (l’indennità di malattia è a carico dell’Inps).
A decorrere dalla stessa data di cui sopra al collaboratore è riconosciuta anche un’indennità di disoccupazione (Dis-Coll) per un periodo massimo di sei mesi a condizione che il collaboratore sia effettivamente disoccupato (iscrizione al centro per l’impiego) e possa far valere almeno un mese di contribuzione nel periodo che va dal 1° gennaio dell’anno civile precedente l’evento di cessazione del rapporto di collaborazione alla data dell’evento stesso.
Da ultimo, nel ricordare che per i collaboratori sono previsti i congedi di maternità e parentale in maniera del tutto simile a quanto regolato per i lavoratori dipendenti, è utile segnalare che la relativa indennità è riconosciuta a prescindere dall’effettiva astensione dall’attività lavorativa da parte del collaboratore.