
Licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese: no al tetto dell’indennità risarcitoria
Con sentenza n. 118/2025 la Corte Costituzionale demolisce un altro pezzettino del Jobs Act dichiarando l’illegittimità del limite massimo, pari a sei mensilità e così già previsto dalle Legge 108/1990, dell’indennità spettante al lavoratore licenziato in assenza di un giustificato motivo oggettivo o soggettivo o di una giusta causa da parte di un datore di lavoro che non occupi più di 15 dipendenti presso l’unità produttiva o nello stesso comune o, in ogni caso, complessivamente più di 60 dipendenti.
Le ragioni della decisione dei giudici della Consulta, facilmente prevedibili a seguito di una precedente sentenza della stessa Consulta (n. 183/2022) che invocava sulla materia un intervento del legislatore, sono da rinvenire nell l’inadeguatezza del limite fisso dell’indennità, peraltro circoscritto entro una forbice così esigua da non permettere al giudice di personalizzare il risarcimento del danno subito dal lavoratore in ragione di una serie di criteri oggi ben noti per le aziende maggiori, a fungere anche da deterrente nei confronti del datore di lavoro.
Alla luce dell’intervento dei giudici costituzionali oggi il risarcimento dovuto, in caso di illegittimo licenziamento, dai datori di lavoro che occupano fino a 15 dipendenti si estende tra le 3 e le 18 mensilità.
E’ appena il caso di ricordare che il tema è stato recentemente oggetto di quesito referendario, proposto in primo luogo dalla CGIL, che non ha avuto esito per il mancato raggiungimento del quorum di votanti e che la questione assume un rilevo di priorità in considerazione del fatto che la stragrande maggioranza delle imprese del nostro Paese, secondo gli ultimi dati dell’Istat, è costituita da “microimprese” .
Interdizione della lavoratrice ante e post partum: le indicazioni dell’Ispettorato nazionale del lavoro
Con nota n. 5944/2025 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha diramato una sorta di “vedemecum” con cui illustra le fasi che conducono l’organo di vigilanza a emanare i provvedimenti di interdizione dal lavoro delle lavoratrici madri nei periodi antecedenti e successivi al parto, quando le condizioni di lavoro o ambientali siano da ritenersi pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino.
Nel caso, invece, insorgano gravi complicazioni della gravidanza o sussistano preesistenti forme morbose in capo alla lavoratrice, il provvedimento di interdizione dal lavoro è di competenza dell’ASL.
Nel richiamare la base normativa, costituita dagli artt. 6, 7 e 17 del Dlgs 151/2001 (Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), l’Ispettorato del lavoro precisa che l’istanza di interdizione dal lavoro può essere presentata dal datore di lavoro o dalla lavoratrice.
Chiarisce poi la nota in commento che il procedimento di autorizzazione all’astensione dal lavoro “non rappresenta un accertamento ispettivo” in quanto la valutazione del rischio e la fattibilità dello spostamento ad altra mansione sono di esclusiva competenza del datore di lavoro e, contestualmente, che i provvedimenti di interdizione emessi sono da considerarsi definitivi.
Di particolare interesse, per concludere, la posizione dell’ispettorato del lavoro in merito alla possibilità di spostamento della lavoratrice ad altra mansione, circostanza da riservare all’esclusiva valutazione del datore di lavoro che dovrà tener conto, anche in presenza di una mansione alternativa nel contesto aziendale dell’opportunità di assegnarvi la lavoratrice in riferimento all’utilità o meno dello spostamento sia per l’organizzazione aziendale che per la lavoratrice stessa.
Lo Studio rimane a disposizione.