
L’8 e il 9 giugno si tiene il referendum su 5 quesiti, 4 dei quali riguardano leggi sul diritto del lavoro.
Con il presente contributo commenterò quello proposto con la scheda verde che dice:
Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti…?”
In premessa, prima di addentrarmi nell’argomento, desidero dare evidenza di quanto segue: il diritto del lavoro è uno straordinario compendio di norme che sono state scritte, nell’incedere del tempo, nei luoghi di lavoro e nelle periferiche aule di giustizia; esse trovano la loro evidenza nelle trasposizioni in codici e testi unici ma la cifra stilistica è quella del bricolage: il sistema di regole del diritto del lavoro trova la sua fonte nella continua ricerca dell’equilibrio nel rapporto tra lavoratori e datori di lavoro ed appartiene a moltitudini di sconosciuti operatori giuridici e a comuni mortali. Ciò nondimeno il sistema di regole risente delle mutate condizioni sociali ed economiche che, nei diversi tempi, caratterizzano la vita di una comunità. Ma non sempre il loro assestamento è accompagnato da diligenza e coerenza legislativa.
Cito un solo esempio: le norme di modifica del contratto a tempo determinato (anche su questo istituto c’è un quesito referendario), sono state oggetto di numerose riforme e controriforme, intervenute con una frequenza patologica: dal 2005 ad oggi, tra leggi, decreti legislativi e sentenze della Corte Costituzionale, le modifiche intervenute al testo originario sono state circa una ventina, frutto di una schizofrenia legislativa che ha provocato l’incertezza del dato normativo e la cui interpretazione è stata oggetto di una feconda attività giurisprudenziale e dottrinale.
Ma al di là di questi fenomeni che relazione ha questa considerazione con la campagna referendaria? I quesiti proposti dalla CGIL intervengono come cesoie su alcune fondamentali leggi del diritto, con il rischio che si crei un corto circuito che non risolverà il problema posto dal maggior sindacato italiano, appunto per il fatto che le fonti del diritto si sedimentano nel loro ordinamento a seguito di una straordinaria attività di ingegneria sindacale, che si nutre di un diritto “vivente” frutto di una coscienza sociale a cui si deve portare rispetto.
L’altro elemento d’interesse per un operatore del diritto è il ricorso al referendum da parte di un’organizzazione di rappresentanza. Cosa significa questo? quale senso dare all’iniziativa referendaria?
Una possibile risposta consiste nel cambio di paradigma in conseguenza del quale il sindacato passa dalla lotta convenzionalmente affidata all’esercizio di sciopero (diritto costituzionalmente garantito), alla consultazione dei cittadini (non dei lavoratori) al fine di provocare una pressione sociale finalizzata al raggiungimento del medesimo obiettivo: la tutela dei diritti dei lavoratori.
Il sindacato, la CGIL in questo caso, ricorre a mezzi alternativi allo sciopero, forse temendo che questa modalità di protesta sociale goda di un consenso che tende ad affievolirsi. Peraltro, il cambiamento di paradigma viene testimoniato anche su altri fronti: sul salario minimo le posizioni di Landini sono note, essendo un sostenitore di una legge che lo garantisca, mentre in passato la CGIL (ma anche le altre sigle sindacali CISL e UIL) si era mostrata contraria all’introduzione di un salario minimo legale in Italia, temendo una cessione di potere a vantaggio del legislatore: anche questa vicenda può dunque essere letta come un depotenziamento del potere contrattuale del sindacato.
Ma veniamo al quesito referendario: che cosa si contesta? Innanzitutto, la disinformazione. Anche oggi, leggendo articoli riportati in autorevoli organi d’informazione, vengono pubblicati dati inesatti, che si riferiscono ad un testo normativo profondamente cambiato a seguito di importanti pronunce della Corte costituzionale che hanno un effetto generale, non limitato a singoli giudizi, e definitivo.
Vediamo nello specifico cosa è cambiato in materia di licenziamenti mettendo a confronto il decreto a tutele crescenti (impropriamente chiamato Jobs Act) e la legge che l’ha preceduto, nota come Legge Fornero, L. 92/2012:
Visualizza schema – Legge Fornero
Le modifiche intervenute sul d.lgs. 23/2015 a seguito delle sentenze della Corte costituzionale sono le seguenti:
- sentenza n. 194/2018
è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 co. 1 limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», quindi, il giudice decide l’entità dell’indennità da 6 a 36 mensilità (migliorativa rispetto a quella prevista dalla “Fornero” che arriva ad un massimo di 24 mensilità), superando l’automatismo della norma originaria che stabiliva la misura dell’indennità in relazione all’anzianità del lavoratore.
- sentenza n. 150/2020
è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Anche in questo caso si supera l’automatismo per il calcolo dell’indennità sulla base della sola anzianità, affidando al giudice il potere di decidere.
- sentenza n. 22/2024
Per effetto di tale pronuncia si ampia sostanzialmente il regime di tutela in caso di licenziamento, laddove sia accertata la sua nullità sia che nella disposizione imperativa violata essa venga richiamata espressamente, ma anche quando ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata e comunque salvo che la legge disponga diversamente. Per effetto di tale pronuncia l’ambito di tutela si ampia comprendendo così anche i casi di nullità non espressamente previsti come tali dalla legge quali, per esempio, il licenziamento durante il periodo di comporto per malattia, il licenziamento ritorsivo del dipendente (il cosiddetto whistleblower), il licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto di lavoro.
- Sentenza n. 128/2024
La Suprema Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 3 co. 2, nella parte in cui non prevede che si applichi la tutela reintegratoria attenuata (2° livello) anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto organizzativo posto dal datore a fondamento del recesso datoriale.
- Ed infine, la sentenza n. 129/2024
Per effetto della quale deve ammettersi la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la contrattazione collettiva preveda che specifiche inadempienze del lavoratore, pur disciplinarmente rilevanti, siano passibili solo di sanzioni conservative.
Alla luce di questi interventi il referendum sul c.d. Jobs Act diventa un’arma spuntata, usata forse più per organizzare un dissenso al potere politico. Ma quali sarebbero le conseguenze se l’esito del referendum fosse si segno contrario rispetto alle aspettative del sindacato?
Lo studio rimane a disposizione per qualsiasi chiarimento.