Avrà un forte impatto la decisione adottata dalla Federal Trade Commission degli Stati Uniti d’America il 23 aprile 2024, con cui sono stati vietati i patti di non concorrenza stipulati tra datori di lavoro e lavoratori, in quanto ritenuti in contrasto con la legge che vieta gli atti ingiusti o le pratiche ingannevoli in grado di influenzare il commercio. Si pensa infatti che l’esigenza di “proteggere” la posizione di mercato della singola impresa possa ridurre le opportunità di carriera e di un miglioramento economico dei singoli lavoratori, limitandone la libertà di iniziativa economica.
La decisione distingue tra i patti di non concorrenza già esistenti, che potranno rimanere in vigore solo per i “senior executives” (equivalenti ai nostri dirigenti apicali), e i nuovi patti di non concorrenza, che saranno assolutamente vietati sin dall’entrata in vigore del provvedimento, ossia una volta decorsi 120 giorni dalla sua pubblicazione.
La disposizione adottata dalla Federal Trade Commission è quindi orientata a dare assoluta importanza all’interesse del lavoratore di poter esercitare, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, un impiego coerente con la propria professionalità, nonostante possa essere concorrenziale rispetto all’attività lavorativa svolta in precedenza. L’obiettivo di questa scelta è quello di promuovere maggiore dinamismo e innovazione sul mercato e favorire il miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori: i patti di non concorrenza, quindi, vengono considerati lesivi non solo per la libera circolazione dei lavoratori sul mercato, ma anche della leale concorrenza tra imprese. A supporto di queste previsioni, la commissione ha fornito anche dati numerici, dichiarando che l’eliminazione dei patti di non concorrenza favorirà la nascita di circa 8.500 nuove imprese con un aumento medio dei salari di $524 miliardi nel prossimo decennio.
Questo approccio è completamente differente da quello adottato dal nostro ordinamento: infatti, sulla base dell’art 2125 del Codice civile, il lavoratore è obbligato a non svolgere attività in proprio o alle dipendenze altrui, in concorrenza con il datore di lavoro. Questa disciplina è diretta a trovare un bilanciamento tra l’interesse del datore di lavoro, ovvero non disperdere sul mercato il proprio know-how aziendale, e quello del lavoratore, il quale può comunque svolgere un’attività sfruttando la propria professionalità acquisita, poiché la stipulazione del patto di non concorrenza è sottoposta al rispetto di una serie di requisiti formali e sostanziali tali da garantire comunque la sua libertà di iniziativa economica.
Ricordiamo infatti che, nel nostro ordinamento, i patti di non concorrenza con i prestatori di lavoro possono essere stipulati solo qualora sussistano alcune condizioni rigide e tassative, riguardanti limiti di durata, di oggetto e di territorio, oltre a dover prevedere un corrispettivo economico adeguato. Questo proprio per evitare che il patto di non concorrenza possa diventare uno strumento abusivo volto a limitare la mobilità dei lavoratori in assenza di valide motivazioni riguardanti la necessità di tutelare segreti industriali o commerciali o il know-how dell’azienda.
Questo bilanciamento di interessi datoriali e del lavoratore che caratterizza il nostro ordinamento è in contrasto con la decisione americana, che si focalizza esclusivamente sulla possibilità di reinvestimento della professionalità del lavoratore.
Ci si chiede quindi se la decisione della Federal Trade Commission avrà dei riflessi economici e anche nel nostro ordinamento, e quale delle due modalità avrà un impatto vincente nel lungo periodo.
Lo Studio rimane a disposizione.