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In ogni tipologia di contratto di lavoro subordinato le parti devono prevedere l’effettuazione di un periodo di prova con l’avvertenza che, se non viene indicato, il rapporto di lavoro si considera definitivo nei termini di durata concordati (a tempo determinato o indeterminato) fin dall’inizio; il periodo di prova consente, a vantaggio del datore di lavoro, di giudicare l’idoneità fisica e attitudinale del lavoratore a svolgere la prestazione dedotta in contratto.

Nel corso della prova il contratto di lavoro si considera definitivamente costituito; quindi, i diritti e gli obblighi delle parti sono pienamente operanti e definiti: la sua particolarità risiede nel fatto che, durante tale periodo, le parti possono recedere liberamente dal contratto senza obbligo di motivazione o di preavviso e senza l’applicazione delle tutele previste in caso di licenziamento. Al termine della prova, se entrambe le parti ne considerano positivo l’esito, l’assunzione diventa definitiva e il periodo prestato rientrerà nel computo dell’anzianità di servizio.

La disciplina del patto di prova, contenuta nell’art. 2096 del codice civile, definisce i requisiti da rispettare affinché esso sia considerato valido: “l’assunzione del prestatore di lavoro con un periodo di prova deve risultare da atto scritto”, sottoscritto da entrambe le parti, a pena di nullità. La forma scritta è richiesta dalla legge, quindi va rispettata anche quando i contratti collettivi non la prevedono. La giurisprudenza ritiene inoltre che lo stesso debba essere siglato contestualmente alla stipulazione del contratto di lavoro, o comunque prima della sua esecuzione: il patto stipulato successivamente è nullo, e il rapporto assume immediatamente carattere definitivo.

La legge n. 604/66, all’art 10, fissa la durata della prova in un massimo di sei mesi: resta comunque in capo alla contrattazione collettiva l’onere di stabilire una diversa durata purché inferiore a sei mesi. Il Decreto Trasparenza (D.Lgs. 104 del 27/6/2022) è intervenuto sui criteri per stabilire la durata del periodo di prova nei rapporti a tempo determinato, prevedendo che “… deve essere proporzionata alla durata del contratto stesso e alla tipologia di mansione da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”. Questa formulazione, un tanto vaga, è stata in qualche caso trasposta in termini di maggior chiarezza da alcuni contratti collettivi. In particolare, il CCNL Confimi Impresa Metalmeccanica offre una soluzione che si condivide che prevede che “per i rapporti di lavoro a tempo determinato, la durata dell’eventuale periodo di prova non potrà essere superiore alla metà del contratto di lavoro…”.

Il patto di prova deve necessariamente contenere l’indicazione delle specifiche mansioni che il lavoratore deve svolgere: ciò si rende necessario sia per dare al lavoratore la possibilità di dimostrare le sue capacità e il suo impegno in relazione a un programma ben definito, sia per concedere al datore di lavoro la facoltà di esprimere una valutazione sull’esito della prova in ordine a compiti esattamente indentificati. A tale scopo è possibile fare riferimento al sistema di classificazione del contratto collettivo applicabile, qualora questa classificazione consenta di identificare uno specifico profilo professionale.

Se il lavoratore viene assegnato a mansioni diverse da quelle indicate nel patto di prova, lo stesso è da ritenersi nullo. Di conseguenza, il rapporto di lavoro si ritiene costituito sin dal suo inizio: il datore di lavoro che vorrà interrompere il rapporto di lavoro prima del termine stabilito, dovrà quindi applicare la disciplina relativa ai licenziamenti. La giurisprudenza si è espressa più volte su questo tema: a titolo esemplificativo, si richiama la sentenza della Corte di Cassazione n. 3852 del 2015, che ha confermato che “la specificazione delle mansioni nella lettera di assunzione è un requisito essenziale per la validità della prova”. Anche la recente sentenza della Cassazione Civile Sezione Lavoro, n. 6552 del 2023, ha chiarito che il patto di prova apposto al contratto di lavoro non solo deve risultare da atto scritto, ma deve contenere anche la “specifica indicazione delle mansioni da espletarsi, ponendo eventualmente un riferimento alle previsioni del contratto collettivo, ove sul punto sufficientemente chiaro e preciso; la relativa mancanza costituisce infatti motivo di nullità del patto”.

Si rimarca tale aspetto sulla legittimità del periodo di prova in quanto una sua sottovalutazione può comportare sgradevoli conseguenze.

A conferma di ciò, si riporta un caso pratico di un’azienda cliente presso il nostro studio, la quale ha assunto una lavoratrice come capo contabile, inquadrata al 1° livello del CCNL Industria alimentare e patto di prova di 6 mesi. In effetti, il datore di lavoro aveva avviato una selezione per individuare una figura che avesse le competenze e la professionalità adeguate a svolgere la mansione di accounting manager che venne precisamente indicata nel suo profilo di ruolo, tant’è che alla dipendente fu consegnato un elenco delle attività inerenti al ruolo per cui era stata assunta.

Tuttavia, nel corso del periodo di prova, la lavoratrice manifestava le sue carenze professionali nonostante il supporto offerto. Ad esempio, nei primi giorni dall’assunzione, la dipendente è stata istruita e formata sul sistema contabile aziendale (l’ERP “SAP”) che aveva dichiarato di non conoscere e senza il quale non avrebbe potuto svolgere il suo ruolo. Nei quattro mesi di collaborazione, il dirigente responsabile della formazione della lavoratrice dovette riscontrare diverse problematiche, lacune e, comunque, situazioni che indicavano come la prova non stava affatto avendo esito positivo.

 

La lavoratrice veniva quindi licenziata per mancato superamento del periodo di prova.

Il provvedimento fu tempestivamente impugnato ed in sede di ricorso la dipendente contestò di aver svolto il ruolo di impiegato direttivo di cui all’inquadramento assegnato che prevede, secondo la declaratoria del CCNL applicato, “complesse conoscenze e competenze necessarie ed il grado di autonomia e iniziativa richiesto nello svolgimento delle relative incombenze.” Invero, proprio a causa delle sue carenze professionali, la lavoratrice affermò che lei svolse (e non poteva che essere così) mansioni da 3° livello, per il quale era previsto un patto di prova non superiore a tre mesi.

Cosicché, essendo il licenziamento intervento dopo quattro mesi dall’assunzione, la lavoratrice rivendicò un risarcimento che, considerata la tutela invocata, consisteva nel ricevere un’indennità determinata in misura non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità dell’ultima sua retribuzione di riferimento secondo quanto previsto dall’art. 2 del D.Lgs. 23/2015

Le criticità sono dunque insidiosamente presenti anche nella gestione di istituti che, all’apparenza, non richiedono particolare attenzione.

Lo Studio rimane a disposizione. 

 

 

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